Cosa accade durante una seduta e quali caratteristiche deve avere chi lavora
nella relazione d'aiuto? Preparazione tecnica? Empatia? Capacità di non
confondersi con la problematica dell'altro?
Saper ascoltare ed intervenire in ugual misura? Ciò che sto scoprendo è qualcosa
che non mi aspettavo e che mi lascia piacevolmente sorpresa. Nella mia
professione ho cominciato condividendo il sapere, fresca di master post-
universitario ho scandagliato per anni con una specie di "microscopio mentale"
l'inconscio di chi mi stava davanti, generalmente individuavo velocemente il"
virus".. ma con il tempo ho scoperto che nonostante tutti i miei studi e la mia
acutezza, l'agente patogeno continuava indisturbato a volteggiare nell'inconscio
di chi osservavo, anzi, spesso il virus diventava più forte per il solo fatto di
essere stato osservato. Era un po' come scoprire un virus molto narciso che come
un primo attore diventava più forte quando si parlava di lui, ogni discorso
diventava un applauso a cui lui s'inchinava gongolando. Ho creduto allora di
aver sbagliato mestiere, ho pensato di non essere capace, mi sono tolta dalle
scene e per anni ho fatto tutt'altro per vivere. Nel tempo libero esploravo
quella strana cosa che è un essere umano attraverso altri modi, apparentemente
lontani dal microscopio occidentale. Lentamente, a forza di curiosare,
esplorare, toccare me stessa e l'altro, ho percepito che una sorta di "densità"
mi permetteva di tornare a fare il mio mestiere. Il virus non era più qualcosa
di esterno, su cui mirare e fare fuoco, era un elemento, neppure tanto
importante, della meravigliosa interezza di chi avevo di fronte e di me stessa.
Ho cominciato allora a lavorare condividendo l'esperienza, cioè quel qualcosa di
solido, ma non ben definito, che permette all'azione giusta di presentarsi da
sola. Nel setting il virus appariva volteggiando sullo sfondo come una comparsa
e non più come primo attore. Era l'integrità dell'altro a dirmi cosa fare, il
"paziente" era già sano, non era mai stato "malato", ma aveva bisogno di uno
specchio neutro, di qualcosa o qualcuno che non si facesse sedurre dal virus, ma
che sapesse danzare con lui. Ero sorpresa da chi incontravo e trovavo ogni
problematica misteriosa nella sua manifestazione, una sorta di problema auto-
risolto, una perfezione imperfetta, una tensione verso l'evoluzione naturale di
se stessi. Ed in questa modalità, che continua tutt'ora, si sta insinuando un
altro elemento che mai avrei sospettato: la vulnerabilità. Esiste un momento in
cui qualcosa di noi stessi sfonda una porta, qualcosa cede e si accetta di
toccare e di essere toccati. Si sente di partecipare a quel qualcosa che
appartiene al fondamento di un essere umano, si è attraversati dalla propria, e
dall'altrui emozione, per essere più precisi si potrebbe dire che si entra in
vibrazione con ciò che è all'origine di qualsiasi emozione, e con una grande
umiltà si dice si al movimento delle cose, ci si accorge cioè che l'unica
guarigione possibile è abbandonarsi, lasciarsi attraversare, cambiare, divorare,
dal movimento del presente.
Cosa c'entra questo con la relazione d'aiuto e la professionalità? C'entra nella
misura in cui io non intervengo più giustificata dal mio ruolo di
professionista, a inquinare, confondere, mitigare, un movimento che è molto
vasto e che di certo la sa più lunga di me e delle mie tecniche. C'entra nella
misura in cui la seduta diviene un luogo dedito all'ascolto ed alla creazione
impersonale, un luogo in cui gli agenti patogeni fanno sorridere perché ci si
accorge che c'è una grande corrente e se chiedete al movimento cosa sono i virus
non sa cosa rispondere perché non li conosce.